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Clelia o il governo dei preti è il romanzo che Giuseppe Garibaldi scrisse nel 1868, dopo Mentana. D’impianto feuilletonistico, pieno di retorica romantica e patriottica, risente fortemente del tempo in cui fu scritto ed è dunque pervaso di giustificata acredine contro Napoleone III, ironicamente chiamato “l’uomo del 2 dicembre” con riferimento al colpo di stato con il quale “il Piccolo” aveva tentato di imitare quello che in un celebre 18 brumaio (il 2 dicembre 1804) aveva fatto imperatore il più grande zio. Il bersaglio principale è, comunque, il “pretismo”. “In esso – aveva scritto Garibaldi – ho sempre creduto di trovare il puntello d’ogni dispotismo, d’ogni vizio, d’ogni corruzione”.
Il romanzo, ambientato nella Roma papalina contemporanea, ha un intreccio complicato in cui preti assassini e cardinali abortisti si alternano con briganti buoni, fanciulle insidiate, donne traviate e redente. Le situazioni estreme talora rappresentate condussero i primi editori, inglesi (l’antibonapartismo e l’anticlericalismo gli impedirono di trovarne in Italia e in Francia prima del 1870), a mutare il titolo in Il governo del monaco, che richiamava appunto Il monaco, un romanzo nero anticattolico di Matthew Gregory Lewis, un grande successo editoriale del primo ottocento britannico. Garibaldi per primo doveva essere consapevole che la parte propriamente romanzesca, d’invenzione, era un po’ tirata via. Nella prefazione scrisse: “Circa alla parte romantica, se non fosse adorna della storica, in cui mi credo competente, e dal merito di svelare i vizi e le nefandezze del pretismo, io non avrei tediato il pubblico, nel secolo in cui scrivono romanzi i Manzoni, i Guerrazzi, i Victor Hugo”. L’intenzione è perciò, quasi esplicitamente didascalica: dentro il racconto motivi autobiografici, personaggi reali, tirate oratorie, proposte politiche. Insomma un “manifesto”, una sorta di “Garibaldi illustrato al popolo da Garibaldi”. Le ristampe italiane del romanzo sono poche e nessuna se ne rintraccia di grandi editori. Stranamente, ma non troppo. Non crediamo che la cosa dipenda dalla qualità letteraria dell’opera, decisamente scarsa, ma ampiamente compensata dall’interesse documentario. La cagione è probabilmente altra: nel suo libro l’Eroe si spinge troppo avanti ed osa riportare per intero una lettera di san Domenico al papa che inneggia alla carneficina degli Albigesi. Francamente troppo per un paese come l’Italia ove, si sa, con i santi non si può scherzare. Il brano che qui riporto, dopo la prefazione in foto, è tratto dal capitolo 40 e riguarda le conseg... Read the whole post...
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