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| Il mito di Sisifo è un saggio pubblicato da Albert Camus nel 1942, quando non aveva ancora trent'anni. È una presa di coscienza del sentimento dell'assurdo.
[Recensione da uaar.it] Pubblicato da Gallimard nel 1942, qualche mese dopo Lo straniero, il libro di Albert Camus (premio Nobel per la letteratura nel 1957, morto nel 1960 in un incidente automobilistico) è un testo che interloquisce direttamente con la filosofia esistenzialista, allora in auge.
«Qui si troverà soltanto la descrizione di un male dello spirito allo stato puro, senza che, per il momento, sia congiunto ad alcuna metafisica né ad alcuna fede». Queste note sono state premesse al testo, che comincia invece con queste fondamentali considerazioni: «vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto viene dopo».
Camus avvia dunque la più radicale riflessione sul senso della vita: «il vivere sotto un tal cielo soffocante, richiede che se ne esca o che vi si rimanga. Si tratta di sapere come se ne esca nel primo caso e perché si resti nel secondo» (p. 29). La mancanza di senso generata dall’incontro col mondo rende l’uomo “assurdo”. Egli si rende conto di essere tale quando affronta le grandi questioni esistenziali: «cominciare a pensare è cominciare a essere minati» (p. 8), «perché le dottrine, che mi spiegano tutto, mi indeboliscono nel medesimo tempo. Esse mi sgravano del peso della mia vita, ma con tutto ciò bisogna bene che io lo porti da solo» (p. 52).
Se la morte è un orizzonte ineliminabile e i valori su cui si basano le diverse scuole di pensiero (religiose e non) non sono in grado di giustificare alcuna scelta, all’“uomo assurdo” non resta che darsi alla ricerca di una vita piena. «Non vuol fare quello che non capisce. […] Egli non sente che questo: la propria innocenza irreparabile. E questo gli permette tutto. Cosicché, ciò che egli richiede da se stesso è solamente vivere con ciò che sa, adattarsi a ciò che è, e non far intervenire nulla che non sia certo. Gli viene risposto che niente lo è: ma questa, almeno, è una certezza. […] A questo punto il problema è invertito. In precedenza si trattava di sapere se la vita dovesse avere un senso per essere vissuta; appare qui, al contrario, che essa sarà tanto meglio vissuta in quanto non avrà alcun senso. Vivere un’esperienza, un destino, è accettarlo pienamente». (p. 50). Perché «per un uomo senza paraocchi, non vi è spettacolo più bello di quello dell’intelligenza alle prese con una realtà che la supera. Lo spettacolo dell’orgoglio umano è ineguagliabile» (p. 51).
Se dunque non esistono valori, occorre aumentare il numero di esperienze e cercare di avere una vita lunga: «Battere tutti i record signif...Read the whole post...
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